ORE 20
Opera musicale in tre atti e cinque quadri
Musica di Giacomo Puccini
Direttore Pietro Mianiti
Regia Daniele Abbado
Orchestra e Coro del Teatro Goldoni
Venerdì 26 aprile, ore 20
Domenica 28 aprile, ore 16
TURANDOT
Opera musicale in tre atti e cinque quadri
Musica di Giacomo Puccini
Direttore Pietro Mianiti
Regia Daniele Abbado
Orchestra e Coro del Teatro Goldoni
Scene e luci Angelo Linzalata
Costumi Giovanna Buzzi
Coreografia Simona Bucci
Nuovo allestimento, coproduzione tra Fondazione Festival Pucciniano e Fondazione Teatro Goldoni
Turandot è un’opera ricchissima, densa di differenti fatti musicali e teatrali, di piani narrativi i più diversi. I linguaggi del tragico, eroico, grottesco, esotico, rituale, comico, convivono in momenti di alternanza, fusione, contrasto. Evidentemente il contenuto di Turandot è strabordante, non sopporta un racconto lineare. In questo risiede gran parte della modernità di quest’opera: l’opera della frammentazione, frammentazione di stili, linguaggi, situazioni. Si tratta probabilmente dell’opera più moderna di Puccini. Di sicuro, dal punto di vista drammaturgico, la più calata nella sensibilità del ‘900. La favola musicata da Puccini ci spinge verso una narrazione non letterale. La Cina è la favola, la favola del Teatro. La Cina è il Teatro, al di là del facile folklore.
In Turandot si alternano i momenti della favola, dell’incubo, della poesia.
C’è una costante ricerca della verità, una verità lontana e sfuggente. Questo porta a continui ribaltamenti, contraddizioni, lapsus, decisioni irreversibili. L’iniziale clima di allucinazione collettiva può essere superato solamente con atti che ripristino la conoscenza. Turandot è una strana tragicommedia della psiche, una serie di variazioni tragicomiche su Amore e Morte. Si parte da una situazione archetipica: il mondo che irrompe in scena è in preda a una paralisi, in una situazione di crisi diffusa. Non si conosce l’origine di questa crisi, probabilmente è stata dimenticata, o falsata. E, come nell’archetipo, restano da svelare tre enigmi.
Probabilmente Puccini non poté completare l’opera perché non si riconosceva più nella programmata conclusione trionfale. In questa edizione nata al Festival di Torre del Lago presentiamo il finale composto da Luciano Berio, in cui di trionfale c’è molto poco. La musica di Berio sposta decisamente il contenuto di Turandot all’interno dei territori musicali del ‘900 e opera una serie di trasformazioni cangianti in cui non c’è una evidente affermazione della “storia d’amore”. Nel finale, Turandot si sottrae alle proprie responsabilità, fugge dalla colpa. Il confronto-scontro che ne segue si svolge in un clima di minaccia psicologica totale.
Tornando al binomio iniziale, c’è più la morte che l’amore in questo confronto.
Siamo sollecitati da una serie di interrogativi. Calaf si offre in segno di sfida totale. Cosa riesce a liberare nella psiche di Turandot? C’è erotismo in questa scena? A questo segue la confessione definitiva, il principe ha finalmente un nome. Calaf ha un finale, come svelasse a sé stesso la propria identità. Attraverso questa rivelazione arriviamo a un doppio riconoscimento?
In fondo, un’opera con un finale poco affermativo. Nella scrittura di Berio Turandot ha un finale critico, è quasi un’opera senza conclusione. Alla fine, tutto dissolve. C’è una lunghissima dissolvenza del suono. Tutto scompare. Ma il maleficio è stato rotto, forse siamo alla fine di una allucinazione collettiva.
Forse ci troviamo in una possibile uscita dalla finzione, dal vecchio Teatro di fine ottocento in cui Puccini ha a lungo vissuto.
Anche con l’importante apporto di Luciano Berio, questo racconto scenico sembra non chiudersi su una fine, quanto piuttosto donare a Turandot il senso di un tentativo, un esperimento. Turandot come Opera Aperta, consegnata al destino di generare e ospitare finali di significato diverso.
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